CITAZIONE
Una metafora sulla vita celata dietro ad uno sport elitario come il golf, ma che inaspettatamente sorprende, tanto da erigerlo a livelli di assoluta eccellenza.
Un unico aggettivo che descrive senza esagerare l’opera di Robert Redford, che per l’occasione si posiziona dietro l’obiettivo, dimostrando di saper dirigere il film con l’abilità di un consumato regista ma aggiungendovi un delicato tocco naive.
Una grande sensibilità capace di toccare, con mano vellutata, un tema universale come il dolore, senza renderlo pesante ed asfissiante, sapendo esplorare la parabola di un uomo, dall’apice del successo sino agli abissi della depressione.
La storia di Rannulph Junuh (Matt Damon), campione e promessa del golf dalle belle speranze che si scontra con le tragedie della prima guerra mondiale, dalle quali ne esce affranto e distrutto, privo della forza di vivere ed incapace di lasciarsi il passato alle spalle.
Un pantano di sofferenza e solitudine nel quale sguazza svuotando innumerevoli bottiglie di alcol, che paradossalmente spengono in lui la fiamma ardente della vita, lasciandosi avvolgere dall’oscurità dei ricordi, sino a quando non viene invitato a partecipare al più prestigioso dei tornei di golf assieme ai più grandi campioni dell’epoca.
Torneo al quale inizialmente si rifiuta di partecipare, perché assieme alla forza per lottare, ha perso il suo swing, metafora attorno al quale si concentra l’intera morale del film, e che recupererà grazie all’aiuto di Bagger Vance (Will Smith), un improbabile caddy che lo aiuterà a percorrere la strada per ritrovarsi.
Quasi una favola, quasi banale nella sua semplicità, ma che Redford è capace di rendere unica e leggera, sapendo dipingere con tinte meno fosche del dovuto questa celebrazione al dolore ed alla rinascita, alla vita e alla gioia di vivere, imprimendo nella mente dello spettatore immagini di rara intensità e significato, pregne di sentimento senza scadere nel melodramma.
Un grande risultato a cui si giunge grazie alle interpretazioni dei protagonisti che, pur non impressionando, riescono a proporre una prova più che dignitosa. Smith in particolare pare eccessivamente “ingessato”, costipato in un ruolo che non gli permette di sfruttare la sua nota eccentrica verve.
Ma sotto la mano salda di Redford il risultato è comunque di grande impatto, coadiuvato da una splendida colonna sonora firmata da Rachel Portman, sempre discreta ma straripante di emozioni quando la regia ne richiede il supporto.
In conclusione, un film dalla rara bellezza, poetico ed elegante, in grado di dipingere il dolore con colori caldi e rassicuranti, in un risultato che esalta, prima di tutto, le emozioni.