Il disastro aereo delle Ande - Alive, Sopravvissuti

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    Francesca

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    Il disastro aereo delle Ande - Alive, Sopravvissuti

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    Con l'espressione "disastro aereo delle Ande" ci si riferisce all'incidente aereo avvenuto sulla Cordigliera delle Ande il 13 ottobre 1972 e ai drammatici avvenimenti successivi fino al salvataggio dei sopravvissuti alla vigilia di Natale dello stesso anno; nell'incidente e nel periodo seguente persero la vita 29 persone mentre sopravvissero in 16.

    Il 12 ottobre 1972 il volo 571 della Fuerza Aérea Uruguaya, un Fokker Fairchild FH-227D, decollò dall'aeroporto "Carrasco" di Montevideo, in Uruguay, diretto all'aeroporto "Arturo Merino Benitez" di Santiago del Cile. Il volo trasportava l'intera squadra di rugby Los viejos cristianos del Collegio Universitario "Stella Maris" della capitale uruguaiana con i rispettivi allenatori, parenti e amici a disputare un incontro al di là della Cordigliera delle Ande.
    Certamente l'errore fatale si sarebbe potuto evitare se i piloti avessero prestato una maggiore attenzione ai tempi del volo. Tuttavia una cosa non ancora chiarita è quanto abbia eventualmente potuto contribuire all'errore un eventuale guasto strumentale dell'apparato di radiolocalizzazione e gestione della rotta. È tuttavia certo che l'incidente avrebbe potuto essere evitato se, con un minimo di attenzione, l'equipaggio si fosse reso conto che al momento della deviazione non potevano essere già arrivati a Curicó.

    L'incidente

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    Così l'aereo deviò di 90 gradi verso nord, ma le montagne non erano ancora state superate, e anzi l'aereo si diresse proprio contro quelle più alte che si distendevano a nord del passo.
    Così, dopo essersi tuffato nelle nuvole mentre stava ancora sorvolando le montagne (zona successivamente identificata tra il Cerro Sosneado e il vulcano Tinguiririca), il Fairchild incontrò una immane turbolenza che lo fece scendere improvvisamente di qualche centinaia di metri. A questo punto le nuvole si erano diradate e sia il pilota che i passeggeri si accorsero di volare in mezzo alle cime vicinissime delle Ande. Per rimediare all'errore, Lagurara spinse al massimo i motori e cercò di prendere quota, ma ormai era troppo tardi: alle 15.31, a circa 4200 metri di altitudine, l'aereo colpì la cima di una montagna con l'ala destra, che nell'urto si staccò e ruotando tagliò la coda del velivolo, all'altezza della cambusa; la coda quindi precipitò, portando con sé alcuni passeggeri, mentre l'elica del motore destro perforò la fusoliera. L'aereo, senza ala né coda, scese rapidamente di quota e colpì un altro spuntone roccioso perdendo anche l'ala sinistra, mentre la fusoliera continuava a precipitare, toccando infine terra di piatto su una ripida spianata nevosa, di pendenza simile alla sua traiettoria. L'aereo scivolò lungo il pendio per circa due chilometri, perdendo gradualmente velocità fino a fermarsi improvvisamente nella neve con un violento impatto. La coda terminò invece la sua corsa più in basso lungo lo stesso pendio.

    I primi giorni

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    Delle 45 persone a bordo, dodici morirono nell'impatto. Altri cinque morirono nel corso della notte e del giorno successivo (Panchito Abal, Julio Martinez-Lamas, Felipe Maquirriain, Graciela Mariani e il co-pilota Dante Lagurara).
    Alcuni sopravvissuti avevano gambe rotte e ferite di vario genere e nessuno disponeva di vestiti adatti per resistere a quelle temperature. I primi soccorsi vennero prestati da Roberto Canessa e Gustavo Zerbino, studenti universitari di medicina, rispettivamente al secondo e al primo anno di studi, senza alcun materiale medico, che poterono quindi solo consigliare ai feriti di mettere gli arti fratturati nella neve, per alleviare il dolore e limitare il gonfiore e medicare come potevano gli altri.
    Incredibile quanto accadde a uno degli eroi della vicenda (che avrebbe partecipato alla spedizione in ricerca di aiuto) Nando Parrado: creduto morente, venne lasciato tutta la prima notte all'addiaccio verso lo squarcio della fusoliera (il punto più freddo), per poi scoprire il giorno dopo che era ancora vivo. Ripresosi, rimase accanto alla sorella Susana fino a quando lei non spirò, otto giorni dopo l'incidente, a causa delle gravi lesioni interne.

    Cibo e acqua

    Attenzione: questa parte potrebbe urtare la sensibilità di chi legge



    Nei primi giorni successivi alla sciagura, i pasti dei sopravvissuti consistevano in un sorso di vino versato in un tappo di deodorante e un assaggio di marmellata per pranzo e un quadratino di cioccolato per cena; le razioni erano rigidamente distribuite dal capitano della squadra Marcelo Perez, per far durare il più a lungo possibile il cibo disponibile. Il cibo e le bevande presenti sull'aereo erano stati acquistati dai passeggeri all'aeroporto di Mendoza, prima dell'imbarco. Constatato che masticare la neve non dissetava ma gelava la bocca, Fito Strauch ebbe l'idea di utilizzare le lamiere di alluminio recuperate dall'interno dei sedili come specchi ustori, per incanalare il calore del sole e sciogliere la neve. Canessa e Maspons riuscirono a creare delle amache sospese nella fusoliera, utilizzando cinghie e aste metalliche non comodissime, ma di grande aiuto per i feriti agli arti inferiori, come Rafael Echavarren e Arturo Nogueira, anche se tale soluzione li riparava dagli urti involontari degli altri compagni, ma non dal freddo, che comunque entrava nella fusoliera, nonostante la barriera di valigie. I sopravvissuti si divisero in gruppi "di lavoro": Canessa Zerbino e Liliana Methol facevano parte del gruppo medico; il secondo gruppo erano assegnati alla fusoliera, da tenere pulita e gestire le fodere dei cuscini utilizzate come coperte, far tenere fuori le scarpe dall'interno ecc. Di questo gruppo facevano parte Harley, Paez, Storm e Nicolich; il terzo gruppo era dei fornitori d'acqua, che dovevano trovare neve incontaminata e trasformarla in acqua. Terminate le ultime razioni, e dopo aver appreso da una radiolina a transistor trovata a bordo dell'interruzione delle ricerche, i sopravvissuti furono costretti dalle circostanze, non senza dubbi, eccezioni e ripensamenti, a cibarsi dei cadaveri dei loro compagni morti, che erano stati sepolti nella neve vicino all'aereo. Non fu una decisione facile, né immediata: se all'inizio tale pensiero fu solo di qualcuno, a poco a poco la discussione si allargò a tutto il gruppo. Quando tutti i sopravvissuti ne parlarono apertamente, la discussione si protrasse dalla mattina fino al pomeriggio inoltrato, dibattendo tra questioni morali, religiose e laiche, fino a quando alcuni di loro riuscirono a reprimere la ripugnanza e a sormontare un tabù primitivo. A poco a poco, nelle ore successive quasi tutti accettarono di rompere tale tabù, esclusivamente per spirito di sopravvivenza.

    La spedizione per la sopravvivenza

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    La speranza dei sopravvissuti di portare a termine con successo una spedizione verso ovest alla ricerca di aiuti si fondava sulle indicazioni errate dell'altimetro e del pilota Lagurara. Ritenendo di trovarsi in Cile, nella zona pedemontana oltre le cime delle Ande, credevano che il ripido pendio visibile verso ovest fosse l'ultima salita oltre la quale si trovavano le pianure del Cile. Era invece il fianco est di uno dei monti dello spartiacque tra Cile e Argentina; ciò significava che oltre quel pendio c'erano in realtà ancora montagne e montagne.
    Così, il 12 dicembre 1972, circa due mesi dopo il disastro, Parrado, Canessa e Vizintín diedero il via alla nuova spedizione per raggiungere il Cile a piedi. Per l'occasione, era stato appositamente cucito uno speciale "sacco", ricavato dal materiale isolante della coda dell'aereo, per ripararsi dal freddo notturno. Impiegarono quasi tre giorni (invece di uno solo previsto) per raggiungere la cima del pendio (ad un'altitudine paragonabile a quella del Monte Bianco). Il primo ad arrivare fu Parrado, seguito da Canessa: si accorsero allora che la realtà era diversa da quella che avevano immaginato e che la distanza sarebbe stata molto superiore a quanto preventivato.
    Decisero quindi che Vizintín sarebbe tornato all'aereo, perché i viveri che si erano portati appresso sarebbero bastati solo per due persone.

    Dopo la separazione da Vizintin, Parrado e Canessa camminarono per altri sette giorni. Raggiunto il corso d'acqua, Parrado e Canessa ne seguirono per alcuni giorni la riva sinistra, prima nella neve e poi, man mano che scendevano di quota, tra le rocce. Incontrarono i primi segni di presenza umana: i resti di una scatoletta di latta e poi, finalmente, alcune mucche al pascolo. Quella sera, mentre riposavano sulla riva del fiume, a Parrado sembrò di scorgere in lontananza, al di là del Rio Azufre ingrossato dallo scioglimento delle nevi, un uomo a cavallo. Urlarono per richiamarne l'attenzione, ma l'uomo si allontanò dopo aver gridato qualcosa che non riuscirono a comprendere. Tuttavia, il giorno dopo videro tre uomini a cavallo che li guardavano sorpresi dall'altra parte del fiume; i due giovani tentarono di urlare chi erano e da dove arrivavano ma, a causa del rumore dell'acqua del torrente, non riuscirono a farsi capire.
    Prima di lasciarli, il mandriano lanciò loro alcune pagnotte di pane che aveva con sé, che Parrado e Canessa divorarono immediatamente. Catalán si diresse allora a cavallo verso ovest per raggiungere il posto di polizia (tenuto dai Carabineros cileni) del paese di Puente Negro. Poco dopo notò sul lato sud del fiume un altro dei mandriani che, come lui, tenevano il bestiame al pascolo in una malga nella località di Los Maitenes. Catalán lo informò della situazione e gli chiese di raggiungere Parrado e Canessa e di portarli a Los Maitenes, mentre lui sarebbe andato a Puente Negro.
    Mentre finalmente Parrado e Canessa venivano soccorsi e portati nella malga di Los Maitenes, dove furono curati e nutriti, Catalán percorse il Rio Azufre fino alla confluenza con il Rio Tinguiririca; attraversato un ponte sul fiume, si trovò sulla strada che collegava San Fernando e Puente Negro alla località di villeggiatura delle Termas del Flaco; si fece dare un passaggio da un autocarro fino a Puente Negro dove avvertì i carabineros, che a loro volta avvertirono il Colonnello Morel, comandante del reggimento di truppe da montagna Colchagua (che era il nome della provincia) di stanza a San Fernando.

    Il salvataggio

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    Il 23 dicembre, il colonnello Morel avvertì le autorità che esistevano dei superstiti al disastro del 13 ottobre; lo stesso giorno partì da Santiago una spedizione di soccorso con due elicotteri.
    Vennero tutti ricoverati in ospedale con sintomi di insufficienza respiratoria da alta montagna, disidratazione, traumi e malnutrizione, ma si trovavano comunque in condizioni di salute migliori di quanto si sarebbe potuto prevedere, nonostante alcuni avessero perso fino a 40 kg.
    I sopravvissuti sono ritornati più volte sul luogo della loro disavventura, che è diventato meta di escursioni (con partenza dall'Argentina) da parte di curiosi, affascinati da un'avventura che ha pochi precedenti.

    Film
    *Alive - Sopravvissuti (Alive), regia di Frank Marshall (1993)[7]
    *I sopravvissuti delle Ande (Supervivientes de los Andes), regia di René Cardona (1976)

    Fonte: wikipedia

     
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  2. mr.wolf
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    Quando ero piccolo vedevo spesso questo film con i miei, perché di tanto in tanto veniva trasmesso su mediaset.

    Che cosa hanno passato quelle persone!
     
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    Francesca

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    Hanno passato Alive giusto ieri notte su Iris, mi pare. Ecco perché mi è rivenuto in mente. E' una storia pazzesca...
     
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2 replies since 4/2/2013, 15:09   644 views
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